
Sono tutti collegati. Peter Pan, Rumpelstiltskin, Baelfire, Hook; e all’orizzonte – all’origine e alla fine – c’è Henry, colui che crede davvero, che ha davvero fede.
Per una volta Ouat si focalizza sui personaggi maschili e lo fa contando sulla bravura di Robert Carlyle e su quella del giovane interprete di Pan che, nonostante sia ancora acerbo, è perfetto per impersonare un re/demone dell’Isola Che Non C’è, ma anche, ed efficacemente, il Pifferaio Magico dell’oscura favola medievale.
La contaminazione è venuta qui molto naturale, ma soprattutto si colloca bene nel più generale contesto psicanalitico che la serie ha scelto per questa stagione, ancora più che per le altre. Si può ravvisare un rischio di intellettualismo? Magari un poco, ma nella premessa new age c’era già tutto; che poi a un altro livello si giochi sulle facili dinamiche di contrapposizione buoni/cattivi, sulle shipping, sul gusto di far incrociare le narrazioni più tradizionali e lontane e addirittura sui costumi kitsch … stiamo sempre parlando di una serie americana, gente, no?

Nel dialogo iniziale fra Baelfire/Neal e Felix il ragazzo sperduto c’è la premessa tematica dell’episodio. Dopo il primo si libera e, messo a tappeto l’altro, mormora: “Non sono più un bambino, Felix, e di certo non sono sperduto”. Neal, con determinazione, affronta l’avventura che consisterà nel dimostrare di essere cresciuto e di poter essere padre. Lui ha abbandonato Emma e, senza volere, ha abbandonato Henry; ora vuole rimediare rendendosi degno, ma la domanda sorge spontanea: si può essere padri, meritando il perdono dei figli, se non si impara a essere figli, perdonando gli errori dei padri?
Questa puntata si chiama “Nasty Habits”, così la visione di Belle definisce la fondamentale tendenza del suo amato Tremotino: “una vita di vile egoismo è una pessima abitudine che non sei mai riuscito a perdere”. Invece, ora lui vuole compiere un’impresa al fine di redimersi, ora che non ha più uno scopo nella vita dato che ormai ritiene Bael morto. E lei? La donna che è sempre riuscita a vedere l’anima al di là dell’apparenza del mostro? Per Rumple non c’è vera speranza in quest’amore; fatalmente, lei alla fine vedrebbe il mostro, dunque l’unica chance è sacrificarsi per Henry, nella speranza che un gesto eclatante finale basti, in una eventuale pesatura della sua anima. In fondo il nostro fa i suoi calcoli, scegliendo la via più economica, quella con un solo grande sforzo e non tanti piccoli sfiancanti tentativi di fare la cosa giusta.
Nel passato del mondo delle fiabe, dove il povero Robert Carlyle ancora deve subire il trucco verde marcio, Tremotino era stato a sua volta abbandonato dal proprio padre, dalla moglie Mila, che poi aveva scelto Hook e poi – per paura che anche Baelfire volesse lasciarlo, una volta che lui era diventato l’Oscuro – ha isolato il figlio a tal punto da fargli desiderare la libertà e lì in quella nicchia d’intossicazione da abbandono Peter Pan, come abbiamo detto, agisce. Nel presente della foresta oscura il rapporto fra Neal e il padre, pur dopo il sollievo e la gioia di quest’ultimo di scoprire il figlio vivo, è sempre improntato alla ragionevole certezza che Rumpelstiltskin usi i suoi metodi violenti. E qui Neal si pone sul limite, quel crinale scomodissimo di chi dice “non voglio fare del male, ma farò quello che deve essere fatto”. Da una parte la legge, la giustizia (che non sono necessariamente la stessa cosa) e la presunzione d’innocenza, dall’altra il fine che giustifica i mezzi e la vendetta.
Comunque: non c’erano calamari più piccoli? Magari un paio di chiletti? Ci saremmo risparmiati l’effetto speciale improbabile.
Pan conosceva già Tremotino, un altro fra i “bambini che non si sentono amati, che si sentono sperduti” e riconosce subito, sotto le apparenze, la verità “Se togli tutto quel potere, sotto sotto sei poco più di un bambino solo e sperduto, che nessuno ama”. E infierisce: la vera paura del nostro non è quella di perdere il figlio, ma che lui lo abbandoni come hanno fatto le altre persone amate della sua vita. Come si fa a essere padri e madri se è già così difficile essere figli e figlie? Chi è l’adulto?
Rumpel non si era fidato che Bael scegliesse di stare con lui nonostante tutto e ora Bael cresciuto non si fida di lui.
“Sei tu il mio lieto fine. È tutto questo… perché è la mia redenzione”. Carlyle ci regala un’interpretazione degna di lui.
Ma Neal non può credere a suo padre: al peccato non può esserci perdono. Perché narrativamente sarebbe troppo facile e scontato? Anche, ma perché magari non c’è rapporto fra perdono e giustizia, perché Neal risponde al mondo della realtà, perché le ferite non si rimarginano. Neal non sconfigge Pan perché non esce dalla dinamica in cui il demone sguazza. Non si fida, non rischia di avere fiducia, speranza nel padre, così senza l’aiuto della sua magia ricade nel tranello del demone; Rumpel non ha più speranza di perdono e redenzione, non può averne in altro se non nella sua autoconservazione. “Non ho scelta” è il refrain di tutti loro, il loro alibi; così Neal ha condannato anche suo figlio, Henry, l’unico che manteneva la fede: anche lui finisce per sentirsi sperduto.
Pan insinua il suo potere laddove c’è una falla, quando nel rapporto fra genitori e figli si crea quell’incrinatura per cui il figlio si sente abbandonato e comincia a odiare il genitore. Nel rapporto di appartenenza si allarga una frattura profonda, che potrebbe essere organica alla crescita dell’adolescente che dice io, pure ribellandosi all’autorità, ma che suppura quando il demone (ma anche il diavolo, suvvia) suggerisce al ragazzo l’ipotesi dell’abbandono da parte del genitore colpevole e dunque la hýbris dell’autosufficienza, che balla e canta una libertà in fondo sinonimo di solitudine disperata. Il genitore colpevole è forse Dio? Accusato di aver abbandonato i suoi figli in balia di un mondo crudele? L’impossibilità della Chiesa come Corpo di Cristo, di eredità luterana. Padri egoisti, figli ribelli, perfidi tentatori. Anzi: figli abbandonati e ribelli che diventano padri egoisti e dunque perfidi tentatori.
Questa è l’ipotesi che Once Upon a Time ci sta suggerendo: un loop esistenziale che solo qualcuno potrebbe rompere. Henry come il True Believer, il vero credente, colui che spera senza stancarsi, che crede profondamente nel legame di appartenenza che lo lega ai suoi. Henry è quel ragazzino che è andato a cercare la madre che lo aveva abbandonato, che ha continuato a credere anche nella redenzione di Regina, la sua madre adottiva, colui per cui l’Oscuro ha persino pensato di sacrificarsi. Henry è colui che crede che il Bene vinca, che ci sia sempre una possibilità, che c’è del buono in ognuno, che il male alla fine non può prevalere: una vera e propria figura cristologica, così come Peter nasconde a stento la sua tenebrosa bellezza luciferina.
Once Upon a Time cerca di distillare una caratteristica umana che possa essere la chiave di una speranza totale, quella cosa dell’uomo che non si può negare, un elemento di salvezza interno al sistema stesso (religione umanistica?), l’inizio possibile di una riscossa contro l’eterna possibilità di male che pure persiste. Non è cosa da poco.
La fine dell’episodio ci dà indicazioni per la trama che Pan ha ordito da lungo tempo: “È normale sognare ciò che abbiamo perso e ciò che speriamo” dice a Henry “Per esempio che tuo padre sia ancora vivo e che tua madre venga a cercarti. Ma prima o poi troverai nuove cose di cui sognare. E quando lo farai inizieranno a diventare realtà”.
“Come fai a saperlo?” interloquisce Henry
“Perché è successo a me. E ora tu sei qui. L’Isola Che Non C’è era il posto in cui nascevano nuovi sogni. Tu puoi riportare qui quella magia, Henry. E noi possiamo essere la tua famiglia”.
È un potere “poietico” quello che cerca, la rottura primaria del rapporto di appartenenza che ha creato questo personaggio di cui persino l’Oscuro riconosce la supremazia è stata capace di generare la realtà stessa dell’Isola, nell’invidia della creazione, ma la vera fede di Pan che l’aveva resa possibile è ormai andata, forse con l’arrivo della corruzione – lo scopriremo presto –; ora Pan ha bisogno della fede di Henry come una sorta di energia. Ma trasformare il ragazzo in uno dei bimbi sperduti – ma forse il termine originario lost = perduto è preferibile in quest’ottica – sarà una politica vincente?
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Once Upon a Time 3×04 “Nasty Habits”
Sono tutti collegati. Peter Pan, Rumpelstiltskin, Baelfire, Hook; e all’orizzonte – all’origine e alla fine – c’è Henry, colui che crede davvero, che ha davvero fede.
Per una volta Ouat si focalizza sui personaggi maschili e lo fa contando sulla bravura di Robert Carlyle e su quella del giovane interprete di Pan che, nonostante sia ancora acerbo, è perfetto per impersonare un re/demone dell’Isola Che Non C’è, ma anche, ed efficacemente, il Pifferaio Magico dell’oscura favola medievale.
La contaminazione è venuta qui molto naturale, ma soprattutto si colloca bene nel più generale contesto psicanalitico che la serie ha scelto per questa stagione, ancora più che per le altre. Si può ravvisare un rischio di intellettualismo? Magari un poco, ma nella premessa new age c’era già tutto; che poi a un altro livello si giochi sulle facili dinamiche di contrapposizione buoni/cattivi, sulle shipping, sul gusto di far incrociare le narrazioni più tradizionali e lontane e addirittura sui costumi kitsch … stiamo sempre parlando di una serie americana, gente, no?
Nel dialogo iniziale fra Baelfire/Neal e Felix il ragazzo sperduto c’è la premessa tematica dell’episodio. Dopo il primo si libera e, messo a tappeto l’altro, mormora: “Non sono più un bambino, Felix, e di certo non sono sperduto”. Neal, con determinazione, affronta l’avventura che consisterà nel dimostrare di essere cresciuto e di poter essere padre. Lui ha abbandonato Emma e, senza volere, ha abbandonato Henry; ora vuole rimediare rendendosi degno, ma la domanda sorge spontanea: si può essere padri, meritando il perdono dei figli, se non si impara a essere figli, perdonando gli errori dei padri?
Questa puntata si chiama “Nasty Habits”, così la visione di Belle definisce la fondamentale tendenza del suo amato Tremotino: “una vita di vile egoismo è una pessima abitudine che non sei mai riuscito a perdere”. Invece, ora lui vuole compiere un’impresa al fine di redimersi, ora che non ha più uno scopo nella vita dato che ormai ritiene Bael morto. E lei? La donna che è sempre riuscita a vedere l’anima al di là dell’apparenza del mostro? Per Rumple non c’è vera speranza in quest’amore; fatalmente, lei alla fine vedrebbe il mostro, dunque l’unica chance è sacrificarsi per Henry, nella speranza che un gesto eclatante finale basti, in una eventuale pesatura della sua anima. In fondo il nostro fa i suoi calcoli, scegliendo la via più economica, quella con un solo grande sforzo e non tanti piccoli sfiancanti tentativi di fare la cosa giusta.
Comunque: non c’erano calamari più piccoli? Magari un paio di chiletti? Ci saremmo risparmiati l’effetto speciale improbabile.
Rumpel non si era fidato che Bael scegliesse di stare con lui nonostante tutto e ora Bael cresciuto non si fida di lui.
“Sei tu il mio lieto fine. È tutto questo… perché è la mia redenzione”. Carlyle ci regala un’interpretazione degna di lui.
Questa è l’ipotesi che Once Upon a Time ci sta suggerendo: un loop esistenziale che solo qualcuno potrebbe rompere. Henry come il True Believer, il vero credente, colui che spera senza stancarsi, che crede profondamente nel legame di appartenenza che lo lega ai suoi. Henry è quel ragazzino che è andato a cercare la madre che lo aveva abbandonato, che ha continuato a credere anche nella redenzione di Regina, la sua madre adottiva, colui per cui l’Oscuro ha persino pensato di sacrificarsi. Henry è colui che crede che il Bene vinca, che ci sia sempre una possibilità, che c’è del buono in ognuno, che il male alla fine non può prevalere: una vera e propria figura cristologica, così come Peter nasconde a stento la sua tenebrosa bellezza luciferina.
Once Upon a Time cerca di distillare una caratteristica umana che possa essere la chiave di una speranza totale, quella cosa dell’uomo che non si può negare, un elemento di salvezza interno al sistema stesso (religione umanistica?), l’inizio possibile di una riscossa contro l’eterna possibilità di male che pure persiste. Non è cosa da poco.
“Come fai a saperlo?” interloquisce Henry
“Perché è successo a me. E ora tu sei qui. L’Isola Che Non C’è era il posto in cui nascevano nuovi sogni. Tu puoi riportare qui quella magia, Henry. E noi possiamo essere la tua famiglia”.
È un potere “poietico” quello che cerca, la rottura primaria del rapporto di appartenenza che ha creato questo personaggio di cui persino l’Oscuro riconosce la supremazia è stata capace di generare la realtà stessa dell’Isola, nell’invidia della creazione, ma la vera fede di Pan che l’aveva resa possibile è ormai andata, forse con l’arrivo della corruzione – lo scopriremo presto –; ora Pan ha bisogno della fede di Henry come una sorta di energia. Ma trasformare il ragazzo in uno dei bimbi sperduti – ma forse il termine originario lost = perduto è preferibile in quest’ottica – sarà una politica vincente?
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