Mary Shelley e la maledizione del lago – Adriano Angelini Sut

mshelleycoverNon c’è persona sulla terra, a prescindere da età, sesso e provenienza, che non conosca il “mostro” di Frankenstein.

Celeberrima è la genesi del romanzo che lo vede protagonista e il nome della sua autrice, Mary Shelley, vera madrina del gotico moderno. Mary Shelley e la maledizione del lago di Adriano Angelini Sut offre uno sguardo nel cono d’ombra prodotto da un’icona tanto amata e da una fama tanto grande da farsi maledizione.

Lago di Ginevra, 1816, nella suggestiva cornice di Villa Diodati una comitiva di esuli britannici inganna tempo e noia con una sfida di scrittura. Tutti i presenti, suggestionati da una seduta spiritica, dovranno cimentarsi in un racconto nero. Forse il più celebre horror-contest di tutti i tempi. La lista dei partecipanti parla da sé: i poeti Percy Shelley e George  Gordon Byron, John Polidori, l’autore de Il vampiro e, naturalmente, Mary Wollstonecraft Shelley, immortale autrice di Frankenstein o il moderno prometeo.

shelleyfotoQuattro scrittori ammantati di leggenda, quattro giovani costretti, dalle inclinazioni personali, dalla scintilla creativa e dalle costrizioni sociali a trasformarsi in “personaggi” tanto invita quanto nella fama postuma. Ma chi era davvero Mary Shelley (nell’immagine a sinistra un ritratto del 1840) e cosa la portò dalle piovose strade di Londra, dove era nata, alla romantica quiete della Svizzera? Qual è la storia di uno dei talenti più precoci e tormentati della letteratura di tutti i tempi? Mary Shelley e la maledizione del lago tenta di rispondere a questi interrogativi, ricostruendo, con grande competenza e passione, la biografia della Shelley e il panorama, geografico, umano, intellettuale e familiare in cui si mosse dalla nascita (30 agosto 1797) alla morte (febbraio 1851). Un biopic letterario dove la ricostruzione romanzata è sempre tenuta sotto la ferrea disciplina della documentazione su fonti di prima mano e le opere (della Shelley e di tutto il suo entourage) costituiscono un prezioso compendio sia informativo che interpretativo. Si parte dalla “straordinaria” (nel senso letterale del termine) famiglia in cui Mary ha la fortuna (e la sfortuna) di nascere. Mary è figlia di Mary Wollstonecraft, scrittrice e precorritrice del pensiero femminista, e del filosofo William Godwin, autore del rivoluzionario pamphlet Inchiesta sulla giustizia politica. Sua madre crede nella parità dei sessi, suo ritiene il superamento di istituzioni obsolete e costrittive, quali governo, proprietà e matrimonio, l’unica via per l’elevazione umana. Mary nasce fuori del matrimonio, un evento scandaloso che stabilirà il milieu del clan Wollostonecraft-Godwin. Mary e le sue sorellastre crescono nella perenne angoscia dell’assenza di rispettabilità sociale, divise tra il desiderio di seguire i nobili ideali di libertà e anticonformismo predicati dai genitori e l’aspirazione a una vita serena, normale, priva d scossoni emotivi.

shelleyMary si innamora di Percy Shelley, (nell’immagine a sinistra) un poeta giovane e tormentato poeta talmente convinto dal pensiero razionalista e ugualitario di Godwin da rifiutare il titolo di baronetto e l’eredità paterna. Come sue madre lo ama senza la benedizione di un legame riconosciuto e per lui, dal momento che il padre, preso da un furioso revanchismo borghese, osteggia il rapporto, abbandona la patria e la famiglia. È l’inizio di un percorso tormentato con pochi momenti felici e un’incredibile serie di dolori. Tutti imprescindibili nella nascita di una scrittrice complessa, moderna e, per ceti versi, misconosciuta. Del rapporto tra vita e opere, esperienze e immaginazione, ambiente familiare e contesto sociale abbiamo parlato con l’autore.

Come è nata l’idea di un “biopic” su Mary Wollstonecraft Shelley?

Semplicemente perché, a parte la mia passione per lei, avevo notato che in lingua italiana nessuno si era preso la briga di redigere una biografia, e lo ritenevo un peccato, considerando lo spessore del personaggio e quanto ha dato alla cultura italiana. Bisognava colmare un vuoto letterario. Così, la mia editrice me l’ha proposta e io ho accettato molto volentieri.

Mary Shelley ha vissuto tanto, forse “troppo”. Quanto c’è della sua travagliata esistenza nelle opere che ha scritto?

È una domanda difficile. In ogni autore c’è qualcosa di autobiografico, e se è bravo saprà distillare gli elementi a lui più prossimi all’interno delle storie e fra i vari personaggi. Sicuramente se non avesse viaggiato tanto, come ha fatto, opere come Valperga (di fatto dedicata alla vicenda fiorentina di Ferruccio Castracani), o Storie di un viaggio di sei settimane, non sarebbero esistite. Lo stesso Frankenstein senza i suoi viaggi in Scozia e sulle Alpi sarebbe un’altra cosa. E poi le sue biografie dei grandi scrittori, soprattutto quelli italiani, pubblicate per la Cabinet Cyclopedia, non credo avrebbe potuto scriverle.

Frankenstein: o il moderno Prometeo, un classico della letteratura gotica o un romanzo di formazione?

Credo entrambe le cose. Anche se Frankenstein da molti è considerato l’antesignano della fantascienza più che del gotico; ma la categorizzazione la lasciamo ai critici scolastici. Il romanzo è, a mio avviso, un inno all’accettazione dell’altro, al di là delle mere forme estetiche (probabilmente la sfida più grande che l’essere umano non ha ancora vinto, forse nemmeno imparato ad accettare). Mary inconsapevolmente ha anticipato di un secolo tutta la psicanalisi dei mostri interiori. L’opera subì una forte pressione da parte di Percy Shelley; il ragazzo voleva che la creatura somigliasse ai suoi (benevoli) deliri di onnipotenza, che il “creatore”, Viktor, fosse il dio in terra che il romanticismo decadente e visionario immaginava come destino per l’uomo nuovo. Mary, che all’epoca della stesura aveva solo 19 anni ed era al suo primo vero scritto e Percy invece, quattro anni più grande, era un poeta già affermato, alla fine s’impose. Il suo creatore fuggì per i rimorsi e la creatura si mise a dargli la caccia. Un monito terribile, soprattutto perché oggi, come sappiamo, la vita in laboratorio si può ricreare, anche quella umana.

Mary Wollstonecraft, la madre della Shelley, è stata una figura presente, ingombrante, fonte d’ispirazione ma anche di angoscia, inadeguatezza. Come sarebbe stata la vita di Mary se la mamma fosse sopravvissuta per crescerla?

Non lo so, poniamo la domanda in questo modo: se Mary Wollstonecraft fosse vissuta e la figlia Mary avesse sentito tutto il peso e il condizionamento della sua presenza e della sua figura? Davvero pensiamo che avrebbe deciso di fare la scrittrice, o di emulare le gesta della madre scappando di casa a 17 anni con Shelley che era sposato? Se avesse avuto un rifiuto del mondo materno delle lettere e dell’insegnamento? Una cosa è certa: Mary si sentì in colpa (chi non lo farebbe) per la morte della madre (ricordiamo che Mary Wollstonecraft morì di parto proprio per dare alla luce Mary). Dopo aver iniziato ad apprezzarne gli scritti e la mentalità, tutta la sua vita è un tentativo di emularla (scrivere e insegnare e amare uomini più grandi che le dessero non solo sicurezza ma stimolo; anche se alla fine l’unico che amò davvero fu un libertino scapestrato come Shelley, di certo il più stimolante e meno sicuro). Probabilmente si liberò dei sensi di colpa solo quando poté crescere finalmente il suo unico figlio rimastole, Percy Florence, e diventare lei pienamente madre.

Sorelle sanguisughe, amiche traditrici e pettegole, le donne che hanno avuto un ruolo nella formazione di Mary Shelley non sono un campione di affetto, solidarietà e statura intellettuale. O sbaglio?

Esattamente. Sembrava avere una calamita per attirare donne che alla fine la facevano soffrire, con le quali entrava in una competizione spietata (come con la matrigna Mary Jane, l’amica Jane Williams e la sorellastra Claire che le fu rivale in amore per Percy). Sembra il destino riservato alle figure femminili che hanno lottato per emanciparsi, una sorta di contrappasso: ci si spende per le donne ma queste alla fine tradiscono, anzi osteggiano fino a lanciare veri e propri affronti (il litigio finale con Claire, poco prima che Mary morisse, fu tragicomico nella sua intensità e spietatezza, tanto che dovettero separarle fisicamente).

Passiamo agli uomini: William Godwin (il padre di Mary), Percy Shelley (l’amore della sua vita), Lord Byron (uno degli amici più intimi). Egotisti, deboli, ipocriti, incapaci di affrontare, da soli, la precarietà della vita. Non escono molto bene nel suo libro i grandi intellettuali che Mary ebbe la fortuna di conoscere da vicino (o sarebbe meglio dire che ebbero la fortuna di frequentarla?).

Credo che chiunque, visto troppo da vicino, soprattutto fra i grandi personaggi della storia, alla fine ci si rivelerà per ciò che è: un essere umano pieno di contraddizioni e brutture (oltre ovviamente alle parti belle). Godwin fu il campione dell’anarchia e l’accusatore del matrimonio borghese tradizionale; quando Mary si fidanzò con Percy (che era sposato) fu costretta a fuggire di casa perché il padre osteggiò fino alla fine la sua relazione “scandalosa”: Byron era un libertino che alla fine impose il battesimo per la figlia Allegra (avuta con Claire) e andò a combattere gli infedeli turchi in Grecia pur osteggiando tutte le aristocrazie europee (lui barone). E poi Shelley: vegetariano, bisessuale, ribelle che fu cacciato da Oxford e rinunciò al titolo di Baronetto e al seggio parlamentare (suo padre era Sir Timothy Shelley, grosso possidente e membro dell’aristocrazia parlamentare inglese). Sono uomini che l’hanno probabilmente impressionata sia per lo spessore intellettuale ma anche per le loro contraddizioni e i loro atteggiamenti imprevedibili. Le servirono, di certo, per rafforzarsi. Per sopportare gli ultimi dieci anni di vita da sola, con un figlio in crescita, un’eredità da gestire (quella di Shelley) e una malattia che la debilitò inesorabilmente (sembra sia morta di tumore al cervello anche se i sintomi iniziarono dieci anni prima della morte e non si capisce come abbia resistito senza cure – all’epoca il tumore non era nemmeno diagnosticato – per tutto quel tempo).

Oltre Frankenstein: parliamo delle altre opere di Mary. Un giudizio sui suoi romanzi storici?

Qui ovviamente il giudizio è meramente personale. Mary scrisse capolavori quando non pensò a scrivere per guadagnare. I romanzi della parte centrale della sua vita (quando scriveva per vivere) Valperga, Matilda, Lodore, non reggono il confronto con quelli scritti quando a muoverla era soprattutto la passione. Gli scritti di viaggio, il Frankenstein, il racconto breve The Invisible Girl (mai tradotto in italiano), L’ultimo uomo. Ci metterei anche The Fortunes of Perkin Warbeck pur realizzato nel periodo della scrittura fatta per vivere. Sono tutte opere in cui Mary riuscì a mescolare gli elementi, ad andare oltre il genere (con The Last Man/Ultimo uomo a inventare la fantascienza catastrofista); importante era saper dosare il mistero, l’avventura e l’ignoto. E poi era una grande saggista, una biografa sopraffina. Lo stesso Godwin rimase impressionato dai suoi scritti sui grandi autori italiani apparsi sulla Cabinet Cyclopedia. Oggi, se io fossi la Mondadori e avessi possibilità di pubblicare cose rare, oltre a fare cassa con Fabio Volo, andrei a ricercare le biografie scritte da Mary dei grandi letterati italiani, Petrarca, Boccaccio, Goldoni…   

L’ultimo uomo, un testo ambizioso, avveniristico. Mary Shelley ha gettato le fondamenta della sci-fiction oltre che del romanzo nero?

Sì, assolutamente. The Last Man/Ultimo uomo è un colpo di genio. Un romanzo di 600 pagine (uno Stephen King ante-litteram) dove si preconizza uno scenario catastrofico di un’umanità decimata da un virus, l’Inghilterra squassata alle fondamenta e i protagonisti (tutti più o meno alter-ego dei personaggi che rappresentarono gli amici della sua vita e delle sue fughe, da Byron, a Percy a Claire, a se stessa) che fuggono verso la Grecia in cerca di una salvezza che in realtà, forse, spetterà solo all’ultimo uomo che riuscirà ad approdare sulle coste di quella terra in cui l’Occidente contemporaneo affonda le sue radici.

Mary Shelley è stata anche una critica letteraria competente e laboriosa, ha curato le opere di Shelley dopo la morte, ma anche quelle del padre-filosofo e di Byron. Quanto del suo tocco è passato nelle loro opere?

Direi che se Percy Shelley è stato apprezzato in Inghilterra, e poi nel resto dell’Europa ottocentesca, soprattutto dopo la sua morte, molto lo si deve a Mary. Oltre, chiaramente, ai vari biografi che si sono cimentati e che sono dovuti passare tutti, almeno inizialmente, tramite lei che aveva la custodia delle sue opere. E che stava all’inizio ben attenta a che non si dicessero cose non vere sulla sua relazione con lui. Mai volle tenerla nascosta. Fece di tutto per far capire il vero valore di opere come Ode al Vento dell’Ovest, o il Prometeo liberato e l’Adonais (scritta per la morte di John Keats). Sfidò pure il divieto di sir Timothy di non pubblicare biografie del figlio finché lui fosse in vita. E ci riuscì. Dagli anni ’30 dell’800, i libri di Shelley iniziarono a circolare con una frequenza maggiore, in giro si trovavano anche edizioni usate e nei circoli letterari, a parte quelli ultra conservatori, era sempre più letto. Con le opere di Byron il discorso fu diverso, lui era già famoso, lei curò soltanto gli ultimi scritti (alcuni li trascrisse). Godwin, decisamente no. Il filosofo era già molto apprezzato. Le opere viaggiavano da sole. Mary, per mero opportunismo, tardò solo la pubblicazione di uno scritto del padre contro il cristianesimo, The Genius of Christianity Unveiled; doveva iscrivere il figlio a Cambridge e aveva bisogno del sostegno del vicario di Stoneleigh che l’aveva in affidamento.

Mary Shelley e la maledizione del lago - VOTO: 4,5/5

Anno: 2013 - Nazione: Italia - Pagine: 192 - Prezzo: € 11.90
Autore: Adriano Angelini Sut
Edito da: XL Edizioni
Traduttore:
Data di uscita in Italia: luglio2013 - Disponibile in eBook: non disponibile
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