Una favola commovente. Un fantasy ricco di pathos. La penna di Ursula K. Le Guin crea un mondo leggendario ed evocativo.
Opera appassionata e fiabesca, La Soglia di Ursula K. Le Guin – che Gargoyle riporta dopo quasi trent’anni nelle librerie, con una traduzione inedita – rappresenta il tentativo di creare una storia con una forte caratterizzazione mitica partendo, però, da una robusta base introspettiva.
Irene e Hug provengono entrambi da famiglie disastrate. Per caso, e ognuno per suo conto, scoprono la Soglia verso un universo con strane leggi fisiche, all’interno del quale ritrovano una serenità che non riescono a sentire nel proprio mondo. Ben presto, comprendono di avere bisogno l’uno dell’altro, non solo per entrare e uscire da questo luogo misterioso, ma anche per far fronte a un ineffabile nemico che minaccia la sopravvivenza di quello che per loro è divenuto il rifugio da una vita di sofferenze.
Nelle prime battute del libro lo stile è incalzante, in particolar modo quando narra la quotidianità di Hug. L’autrice utilizza magistralmente periodi brevi, poche e impeccabili pause, per descrivere una serie di azioni compiute giornalmente in modo meccanico, e che testimoniano tutta la frustrazione di un’esistenza trascorsa in uno statico sobborgo di periferia.
Hug sta avvizzendo, schiacciato da un lavoro che non lo soddisfa e da una madre paranoica. Allo stesso modo, anche il paesaggio descritto dalla Le Guin sembra restringersi, quasi a voler soffocare il protagonista: «Le case su Oak Valley Road erano multifamiliari a due piani, dipinte in marrone e bianco. (…) Incarti di gomme da masticare lattine di bevande analcoliche, coperchi di plastica, (…) giacevano fra ghiaia bianca e le piante scure.»
Il giovane trova la realtà che lo circonda squallida e insopportabile da gestire, solo oltre la Soglia – un mundus allegorico, caratterizzato da spazi aperti e da una Natura incontaminata – riuscirà a riscoprire se stesso. Lì «la mente rimane appagata e vigile, svuotata dalle ansie e dalle spiegazioni», in un’estasi quasi embrionale. “Scivolò nella lanca profonda, si immerse, si lasciò carpire dall’acqua, e l’acqua era in lui, e lui era nell’acqua in un’unica gioia oscura. Dimentico di tutto.”
Traspare per tutto l’arco narrativo il senso di un legame riacquisito. Nell’attimo in cui Hug varca la Porta, sente di appartenere a questo nuovo territorio, e non solo perché è finalmente approdato a qualcosa di altro rispetto all’immobilità della sua routine, ma poiché in quella nuova dimensione ha finalmente la possibilità di ascoltare e dare libero sfogo a tutti i suoi impulsi, “incontaminati dalle pressioni del mondo reale”.
Il suddetto sentimento di unione contraddistingue anche il personaggio di Irene, che per prima scova il passaggio. Quest’ultima, però, avverte di essere parte integrante dello spazio in modo più consistente: conosce la lingua incomprensibile della regione, le usanze e le persone che vi abitano. Tale universo alternativo, caratterizzato dalla presenza di un costante crepuscolo, incarna per i due giovani il passaggio dall’adolescenza all’età adulta ed è, al contempo, uno spiraglio di speranza, una proiezione tangibile dei propri sogni, una fuga dall’orrida realtà.
Per il resto, la trama scorre velocemente. Qualcosa minaccia la comunità di Tambreabezi, il timore s’insinua nella popolazione, e i due protagonisti divengono pedine di un gioco che non comprendono. È di facile lettura il richiamo della scrittrice alla destabilizzante percezione, tipica dell’adolescenza, di far parte di uno schema più vasto, del quale però è difficile afferrare i contorni.
Hug è colui che gli abitanti attendono da tempo – il Salvatore –, ed Irene, dapprima contrariata dall’intrusione del ragazzo nel suo regno di pace, decide comunque di accompagnarlo nella missione che redimerà la cittadinanza. Ed è qui che la descrizione delle due figure e della loro interazione con il «luogo dell’inizio» muta drasticamente. Hug accetta sine condicio il ruolo che gli viene assegnato, senza però capirne il significato. Macilento e goffo, oppresso da una fisicità grottesca, il suo personaggio lascia intravedere una struggente tenerezza e una dignità ragguardevole. Irene acconsente al viaggio in virtù di una promessa fatta, ma ormai, contrariamente al giovane uomo, si ritiene fuori posto. Sarà la Soglia a sovvertire e poi ridefinire le loro sorti. Portato a termine l’arduo incarico, i ragazzi si fondono in unico Io, al fine di sopravvivere a quell’Eden, prima così premuroso e allettante, che ora non offre via di uscita, dilatato in un tempo senza tempo, «perché lì è sempre» e «la patria è l’altro paese, non questo».
La narratrice è straordinaria nel ricostruire i canoni di un’utopia aperta, ambigua, che esprime se stessa non nell’assoluta perfezione del luogo desiderato, ma nell’accettazione del potenziale fallimento. I due adolescenti avanzano verso un orizzonte che non è ideale né statico, ma che si forgia insieme alle loro insicurezze.
Un romanzo toccante, che attraverso una prosa sublime ed evocativa celebra il malinconico incontro di due anime sole e del cammino che dovranno percorrere per ottenere una nuova e appagante consapevolezza. Uno squisito racconto, attraversato da suggestioni intense e difficili da dimenticare.
L’Autrice:
Ursula K. Le Guin, nata a Berkeley il 21 ottobre 1929, è una scrittrice glottoteta, autrice di fantascienza e di fantasy. Ha vinto cinque premi Hugo e sei premi Nebula – i massimi riconoscimenti della letteratura fantastica –, ed è considerata una delle principali autrici viventi di fantascienza. La profondità e attualità dei suoi temi, che spaziano dal femminismo, all’utopia, al pacifismo, hanno reso i suoi romanzi noti e apprezzati ben oltre il tradizionale circolo di lettori di genere. Tra le sue opere si ricordano in particolare La mano sinistra delle tenebre (1969) e I reietti dell’altro pianeta (1974).