Divided Kingdom. Un romanzo di scoperta del sé travestito da distopico.
Il Regno Unito, “ormai una nazione allo sfascio” a causa del consumismo, della violenza e della corruzione, è stato diviso in quattro nuove repubbliche distinte e autonome e la popolazione “smistata” in base all’impronta caratteriale, secondo le categorie delle teorie umorali formulate da Ippocrate (V secolo a.C.) e poi riprese da Galeno (II sec. a.C.) e da Rudolf Steiner (XIX sec. d.C.). La Riorganizzazione ha portato così alla costituzione di un Quartiere Rosso per i sanguigni, di un Quartiere Blu per i flemmatici, di un Quartiere Giallo per i collerici e di un Quartiere Verde per i malinconici.
Il romanzo prende avvio proprio dalla prima notte della Riorganizzazione, con il prelevamento del protagonista – all’epoca bambino – dalla propria casa e dalle braccia dei genitori in lacrime. Ma Thomas è un bambino fortunato, molto fortunato. Perché viene etichettato come sanguigno e destinato quindi al Quartiere Rosso, quello dell’ottimismo, del sorriso, del buon vivere e della tranquillità e addirittura, terminati gli studi, viene reclutato dal governo. Proprio per un incarico di lavoro, gli viene offerta la possibilità – molto rara – di entrare e soggiornare per un breve periodo in un altro Quartiere, quello dei flemmatici Blu. Ma qui qualcosa lo toccherà nel profondo e lo spingerà a fuggire, contravvenendo a ogni legge sullo sconfinamento e sulla contaminazione psicologica (vale a dire la socializzazione con gli altri tipi psicologici).
Al di là di quanto potrebbe – e forse vorrebbe – indicare questa idea di partenza interessante e non priva di originalità, Divided Kingdom è solo formalmente un distopico, ma non contenutisticamente. Il viaggio di Thomas è, infatti, un cammino di scoperta di sé e della propria umanità in un percorso che precipita dal lindo e confortevole Quartiere Rosso via via in luoghi e situazioni sempre più disagevoli e poi estremi e ostili: il Quartiere Blu che per primo mina la sua serenità e la sua muta – e apparentemente partecipe – accettazione del Regno Diviso, poi il Quartiere Giallo dei collerici dove viene picchiato e derubato, in seguito quello dei malinconici Verdi che lo rende estremamente fragile a contatto della disperazione e della rassegnazione degli altri e infine persino quello neutro, libero ma estremamente vulnerabile del Popolo dei Bianchi, coloro che sono stati esclusi dalla società per mancata cromia e ora ne vivono ai margini, talvolta tollerati, spesso ignorati, troppe volte braccati, violati, uccisi. Non a caso Thomas cambierà diversi nomi in ogni situazione in cui verrà a trovarsi, quasi a scandire i suoi nuovi Io, le sue nuove identità, così come l’abbandono del nome che gli avevano dato i suoi genitori aveva fatto da spartiacque tra la sua prima vita e quella nuova impostagli dalla Riorganizzazione:
Come molti miei coetanei avevo due nomi, due vite. Un tempo mi chiamavo Matthew Micklewright, ma quella persona non esisteva più e ormai non mi suscitava più nemmeno curiosità. Era troppo lontana, troppo remota, troppo improbabile. Perché attaccarsi a qualcosa che non esiste più? A che scopo? Quel vecchio nome era diventato vuoto come un baccello. Un nome svuotato di vita e significato. Un nome senza volto. E poi la notte in cui la mia vita era ricominciata… Uno strano inizio. Soldati, luci intense. Il freddo. Quegli uomini che, come chirurghi, mi sollevavano di peso per portarmi in un mondo nuovo. Le lacrime, probabilmente, anche se non me le ricordavo. Ma forse tutte le nascite sono spietate.
Questo percorso può dunque essere inteso in senso spirituale come una metafora esistenziale di crescita e scoperta, non solo per la sua parabola discendente e poi ascendente, ma soprattutto perché il protagonista sembra rubare in ogni Quartiere un brandello della qualità che lo identifica, o più correttamente riscoprire dentro di sé l’esistenza di quell’umore, ricomponendo in qualche modo un’identità limitata e frammentata dalla Riorganizzazione. Peccato che il viaggio di Thomas paia terminare esattamente là dove era iniziato: al sicuro nel Quartiere Rosso, con la prospettiva certa di una promozione in campo professionale e di un coinvolgimento romantico con l’ultima donna del cuore (le altre, liet motiv dell’intera narrazione, nel finale non ricevono stranamente nemmeno una menzione). Non è mutata realmente la condizione del protagonista, ma solo la sua consapevolezza di sé e non quella del mondo in cui si trova, che infatti non sembra intenzionato a cambiare o criticare più tanto. A riprova che la sovrastruttura distopica del romanzo è meramente funzionale alla costruzione delle avventure del protagonista. Nel testo compaiono elementi sovversivi e di denuncia nei confronti della Riorganizzazione, che ha smembrato le famiglie, condannato all’oblio persone solo a causa di test fallibili e imprecisi, assegnato nuove identità e limitato la libertà di ogni individuo. Tuttavia tali elementi, per lo più fallimentari, sono sempre a margine della narrazione e non riguardano mai in prima persona il protagonista, che sì infrange la legge, sì si ribella scappando, ma lo fa solo per se stesso, non per una visione comunitaria e sociale e nemmeno per il mero e crudo ideale di giustizia. Fedele così all’egoismo che caratterizza il Quartiere Rosso cui appartiene, l’unico in realtà che abbia guadagnato qualcosa dalla divisione del Regno: nel Quartiere Blu infatti tutti vivono tentennando nell’indecisione, in quello Giallo i collerici sguazzano nella tecnologia, nella lussuria e nel crimine e in quello Verde hanno un museo delle lacrime e il suicidio è all’ordine del giorno.
Purtroppo lo stile dell’autore, che alterna paragrafi tediosamente descrittivi ad altri onirici, psichedelici, inspiegabilmente lirici, è poco convincente e lo storytelling non riesce a essere sempre coinvolgente. Tuttavia, non mancano nel testo, oltre alla pregevole idea di partenza le cui potenzialità vengono però poi disattese, brani davvero intensi e interessanti di introspezione e immagini commuoventi (come il Museo delle lacrime o la violenta scena della carneficina dei Bianchi). Così, a chiusura dell’ultima pagina, ci si trova un poco confusi sull’esito della lettura e, nonostante razionalmente si possano elencare molti pregi al romanzo, si ha l’insoddisfatta impressione di aver letto un distopico inefficace o un libro intimistico e psicologico in parte inconcludente.