Un briciolo di emozione. Una manciata di personalità. Qualche scheggia di determinazione.
Questi sono gli ingredienti che Catherine Fisher ha scordato di inserire nella preparazione di un romanzo che, altrimenti, avrebbe potuto davvero occupare un posto significativo nel panorama distopico attuale in ambito young adult.
Incarceron ha il tema sotterraneo – e per questo più efficace dell’esplicito – del valore ontologico della libertà. Cos’è la libertà? Cosa ci rende davvero liberi? Il luogo in cui ci troviamo, ciò in cui crediamo, la possibilità di scelta che ci concede la società o non piuttosto il CHI siamo e il CHI decidiamo di essere, a prescindere dal dove, dal come e dal con chi? Tema che l’autrice può fare emergere grazie alle due realtà distopiche che teorizza, quella suggestiva della prigione vivente e quella affascinante del mondo “fuori”, che si sovrappongono, si dividono, talvolta si identificano, lasciando sino all’ultima pagina dubbi sulla loro esistenza concreta o frutto della psiche.
«Non sono solo parole», disse Finn. Era anche una vibrazione, che proveniva dal profondo, dal cuore del buio, un suono simile a un enorme cuore pulsante, i rintocchi di un grande orologio.
Incarceron è una prigione progettata inizialmente per i criminali come una sorta di Eden – riabilitante e consolatorio, ma privo di uscita –, che avrebbe dovuto essere monitorata da un gruppo di Sapienti ed essere autosufficiente, un mondo a sé, dall’ubicazione sconosciuta, senza alcun contatto con quello esterno; inspiegabilmente, però, ha subito una degenerazione per cui essa stessa ha preso vita e potere assoluto, fagocitando e creando, riciclando e trasformando l’originaria amenità in oscurità, violenza e disumanizzazione. Mentre i discendenti dei primi prigionieri vivono e muoiono in quest’incubo, l’ignaro mondo fuori ha scelto per sé un altro tipo di gabbia, sfarzoso, elegante e falsamente garbato, ma sempre limitante, cristallizzando il tempo e costringendo tutti a vivere come nel diciassettesimo secolo, nonostante l’altissimo grado di tecnologia raggiunto.
Proibiamo il progresso e perciò il declino. L’ambizione, e perciò la disperazione. Perché non sono che il riflesso deformato gli uni degli altri. Sopra ogni cosa è vietato il Tempo. D’ora in avanti niente cambierà più. EDITTO DI RE ENDOR
Nonostante la riflessione sulla libertà, nonostante l’evidente potenzialità di questi due world-building e nonostante l’autrice riesca a realizzare un’atmosfera cupa e claustrofobica per il primo e a rendere la sensazione soffocante di una società che si costringe a fingere e a limitarsi per il secondo, il libro non funziona come dovrebbe e potrebbe. In parte per i risvolti psicologizzanti non sempre riusciti; in parte perché rendere credibili, solidi e dettagliati ben due world-building, così diversi e apparentemente disgiunti, non può che essere un’impresa ambiziosa, che infatti non riesce pienamente all’autrice; ma, soprattutto, a causa dell’infelice caratterizzazione dei personaggi, che compromette il coinvolgimento e la “fidelizzazione”. L’autrice sceglie due protagonisti – insipido e insicuro lui, antipatica ed egoista lei – con i quali è difficile entrare in sintonia e impossibile identificarsi, e deuteragonisti ben delineati ma poco amabili, perché dentro e fuori Incarceron gli affetti, la lealtà e la solidarietà sono sempre condizionati e influenzati dalla solitudine, dalla paura e dalla convenienza.
«Per sopravvivere qui dentro gli uomini discendono negli abissi del loro essere. Diventano bestie, egoisti che non si accorgono nemmeno del dolore degli altri. […] I Sapienti erano saggi, ma crearono un sistema senza liberazione, Claudia. Senza perdono.»
L’autrice deve aver optato per questa impostazione al fine di focalizzare l’attenzione sulle due realtà distopiche piuttosto che sui singoli personaggi; ma non ha poi reso la narrazione sufficientemente epica, importante, per far sì che protagonista sia la dimensione sociale e universale e non quella circostanziale dei singoli individui. Durante la lettura, così, si ammirano le scenografie, si respira l’aria viziata e soffocante, magari si attende che il racconto sveli le sue verità, ma non si parteggia mai per nessun personaggio e pure si è abbastanza disinteressati del futuro dei due mondi e dei loro abitanti.
Con le sue molte ricchezze, desolatamente il libro galleggia in una sorta di limbo dell’indeterminazione: troppo poco ambizioso, imponente e universale per risultare epico e nemmeno abbastanza intimistico e personale per emozionare. Un vero peccato.