Il fascino del fantasy

Sulla concezione propedeutica e salutare della narrativa fantastica.

Il mondo si potrebbe dividere in chi ama l’irruzione del fantastico in ciò che legge o guarda nella fiction e in chi invece vuole rimanere ancorato al realismo.

Si potrebbe anche scrivere in quest’ultima frase: “alla realtà”, ma questo sarà proprio l’oggetto di questo discorrere. Chi non sopporta il fantastico ama tout court la realtà? Ed è dunque vero il contrario? L’argomento è ampio, poiché ovviamente ci si chiede se siano una banale fuga nell’immaginario fenomeni di massa come il successo della saga di Harry Potter o la fascinazione del Signore degli Anelli o, persino, il dilagare di vampiri rilucenti che sbancano i botteghini.

E chi ama il fantastico è psicologicamente immaturo rispetto a chi perlustra un mondo popolato da politici più o meno corrotti, leader più o meno impotenti, afflitto da crisi planetarie e incertezza cronica nella vita dei singoli e della collettività? Accantonando l’idea riduttiva che gli eroi di una parte della popolazione “razionalista” possano essere cantanti, attori e protagonisti del gossip, possiamo forse dedurre che chi ama il fantastico dalla realtà voglia semplicemente fuggire, cioè non la ami perché è brutta? Difficile? O noiosa?

È ovvio che non si può artificiosamente ridurre ad unum la complessità della popolazione che si trova a proprio agio in ambiti narrativi realistici, come pure quella di chi ama i diversi sottogeneri del fantastico. Nella realtà inoltre ci sono tante vicende difficili da credere, nel bene e nel male, che è inevitabile pensare che la fantasia sia spesso superata. Eppure “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”.

C’è chi ama autoindursi reazioni emotive di paura in ambiente controllato con l‘horror, chi vuole perdersi negli scenari della fantascienza e chi vuole frequentare mondi alternativi abitati da fate, angeli, demoni o licantropi. Detto così sembra facile: realtà e fuga nella fantasia.

Queste “più cose” di shakespeariana memoria sono, però, solo quelle che può produrre la nostra inarrestabile immaginazione o tutto questo esercizio creativo, dal mito in poi, ha un significato più ampio e profondo di quello che si possa attribuire alle invenzioni fantasiose di un bambino?

Lungi dal voler sminuire il valore dell’immaginazione dei bambini, si può partire da due affermazioni attribuite a due scienziati. Piergiorgio Odifreddi chiede: “Come può un giovane imparare a pensare razionalmente se da bambino si appassiona alle imprese fantastiche di Harry Potter o de Il Signore degli anelli?”. Simone Regazzoni1, che cita questa frase dello scienziato, aggiunge in nota che Odifreddi, a cui aveva chiesto conferma della sua dichiarazione, gli ha cortesemente precisato che non reputa diversa la saga di Harry Potter da altre opere che presentano il mondo in maniera magica invece che razionalista: Bibbia, Iliade, Divina Commedia. Sic.

Silvana De Mari, invece, cita Einstein2: “Se volete dei bambini intelligenti raccontate loro delle fiabe, se volete dei bambini molto intelligenti raccontate loro molte fiabe”. Nelle due frasi colpiscono diverse cose. Forse la prima è come lo studio scientifico possa produrre esiti diversi, benedicendo il Cielo che siano esistite ed esistano persone come Einstein, ma poi le domande vertono su “che cosa è la razionalità?” se due persone che giungono a conclusioni così diverse l’hanno entrambe coltivata? “L’educazione come si deve porre nei confronti della fantasia?”. O meglio che ruolo ha la fantasia nella crescita di una persona? Indulgervi dopo aver abbandonato l’infanzia è sintomo di che?

Le fiabe hanno una grande importanza nella crescita dei bambini, questo è dato per assodato da molti studiosi. Silvana De Mari, medico e terapeuta oltre che scrittrice di fantasy, lo sostiene con forza citando l’importanza che hanno le fiabe anche dal punto di vista terapeutico: per comprendere le paure reali di un bambino gli si offre lo strumento del meccanismo fiabesco per identificarsi e per schermarsi attraverso i personaggi dalle emozioni insopportabili che la dura realtà suscita. Mettendo in scena una storia, nella strega cattiva, nell’orco, ma anche in tante altre sfumature, emergono sentimenti e fatti reali che opprimono la psiche. La fiaba diventa, in queste occasioni, uno strumento terapeutico, ma è interessante la funzione che offre, non solo ai bambini. Nella fiaba dunque si sublimano, si tramandano da una generazione all’altra le emozioni e le istruzioni d’uso per gestirle.

Il mito, ovviamente, è fatto della stessa stoffa e appartiene agli albori della nostra civiltà, ma non solo, a meno che non si voglia relegare a semplice sciocchezza il ruolo dei miti moderni. Ma non vogliamo andare troppo  lontano. Perché Einstein diceva che per avere bambini intelligenti bisogna raccontare loro molte fiabe? Le fiabe, il mito e, in certa parte, molto del fantastico, rivestono una funzione simbolica. Due realtà diverse, accostandosi, consentono una comprensione maggiore: l’una svela l’altra con percorsi mentali nuovi, inusitati. Peraltro a livello linguistico la funzione conoscitiva delle figure retoriche sembra comprovata: metafore, similitudini, analogie e allegorie sono state invece considerate per molto tempo solo ornamenti, appendici inutili, volte ad infiorettare il discorso.

Dice il linguista Stefano Arduini: “la metafora che cos’è? È dire qualcosa in un’altra maniera. È vero, effettivamente, da una parte ho un significato letterale e dall’altra ho un significato che non è quello letterale, una sorta di menzogna. Dunque la metafora è verità o menzogna?(…) Le metafore e le figure retoriche possono essere considerate un’abilità immaginativa, che permette di costruire significati, attivando una serie di competenze che non sono solo verbali, ma che coinvolgono piani cognitivi diversi. (…) Questi processi, inoltre, toccano anche altri sistemi simbolici, ad esempio schemi figurali; potremmo dire ad esempio che opera il mito, o qualcuno direbbe che opera l’inconscio. Quindi le figure retoriche, potremmo tradurre in termini moderni, sono un’abilità cognitiva non solo linguistica, che determina forme simboliche in cui il mondo circostante viene definito, viene costruito addirittura”3.

Si parla di qualcosa per indicare un’altra cosa e la prima aiuta a comprendere meglio la seconda, in termini semplici. Secondo Silvana De Mari, infatti, nella fiaba si giocano le emozioni, nel suo saggio Il drago come realtà afferma:

La potenza della narrativa fantastica è quella di costituire un luogo dove conscio e inconscio si incontrino. La narrativa realistica è possibile solo nella dominanza dell’emisfero sinistro: il nostro cervello ha due metà di cui quella razionale domina sull’altra. Nella narrativa fantastica l’emisfero non dominante finalmente entra sulla scena. C’è una situazione di equilibrio tra gli emisferi cerebrali, tra le due metà del cervello. (…) Questo tipo di narrativa contagia più facilmente le emozioni. Le contagia talmente che possiamo riconoscere emozioni universali, che non possono essere ispirate che da contenuti altrettanto universali: quelli per cui Jung ha creato il nome di archetipo.

Ancora, Stefano Arduini afferma, parlando sempre delle metafore e del loro valore linguistico:

Molte ricerche, a partire dagli anni 80, anche grazie al contenuto della tomografia assiale computerizzata, hanno confermato il ruolo dell’emisfero destro nell’interpretazione delle metafore, delle figure retoriche in generale, mentre è un fatto noto, come abbiamo visto prima, che in soggetti normali destrimani l’elaborazione di tipo linguistico attiva prevalentemente l’emisfero sinistro dell’encefalo.

Il fantastico fa spaziare dunque le nostre emozioni, agendo su entrambi gli emisferi del nostro cervello, mettendo in movimento la nostra capacità di astrazione simbolica, ci nutre di un cibo primigenio, lo stesso che entusiasmava chi ascoltava gli aedi narrare dell’ira di Achille. Ma questa forma di cibo mentale, essendo irrazionale, ci porta allora lontano dalla conoscenza vera, quella che può essere definita solo all’interno del metodo scientifico sperimentale? Come certamente sosterrebbe Odifreddi? Oppure ci apre a connubi insoliti, ci consente una conoscenza basata su un pensiero laterale, divergente, che percorre sentieri desueti, apparentemente illogici, ma nuovi e creativi? Non viene in mente Einstein? (Non Odifreddi comunque).

Scrive Edoardo Rialti:

L’uomo è un essere simbolico, ed in noi i concetti filosofici non sono mai pure astrazioni, ma hanno bisogno di tradursi in immagini visibili, toccabili, esprimibili. Noi conosciamo per immagini. Nessuno di noi riesce a pensare alla bontà disgiungendola dalle immagini visive con le quali egli l’ha vista messa in pratica: una madre che culla un bambino, un padre che muore per salvare il proprio figlio, un medico che cura un ammalato, il sorriso di un amico, e così via. Le immagini di un racconto, quello che decidiamo di far vedere e come, è sempre l’espressione anche di una scelta filosofica, di un certo modo di vedere le cose e il mondo. Una certa immagine condiziona il nostro pensiero, forma il nostro modo di guardare le cose. Per questo i racconti sono così importanti, specie quando si è bambini, perché è proprio allora che plasmiamo le coordinate grazie alle quali affronteremo tutta la vita4.

Il fantastico, dunque, si gioca molto sulle emozioni, ma non ne ha certo l’esclusiva: non può essere tutto qui. Finora in discussione ci sono la fiaba, il mito, non ancora la multiforme produzione fantasy della nostra epoca contemporanea, ma stiamo cercando di capire il processo che il fantastico attiva in noi.

Per Silvana De Mari la fiaba, dunque, era strettamente legata alla situazione reale in cui nasceva e, in questo senso, era più realistica e storica di molte altre forme letterarie: gli orchi e le streghe che mangiavano i bambini rappresentavano il cannibalismo, orrenda e irrappresentabile tragedia nella quale si è incorsi in Europa al tempo di implacabili carestie e guerre devastanti. I più deboli sono i primi a soccombere in tempi di fame e l’orrore è davvero avvenuto, ma genitori troppo poveri potevano esporre nel buio della foresta o cedere i bambini, come si racconta nella fiaba di Hansel e Gretel. Le fiabe erano il modo di raccontare ed esorcizzare quello che non sarebbe mai dovuto avvenire. Allo stesso modo, come le matrigne di Cenerentola o Biancaneve sono il racconto del bambino che teme di non essere amato o di essere sacrificato da chi dovrebbe amarlo, sotto le spoglie della matrigna si nasconde l’inconfessabile cattiveria delle vere madri, che entrano magari in malata competizione con le figlie per essere le più belle del reame.

Silvana De Mari, però, sottolinea poi il passaggio fra fiabe – brevi, destinate ad essere raccontate dagli adulti nell’arco del poco tempo necessario a far addormentare i bambini – e racconto fantastico – più moderno, che invece deve venir letto da un soggetto che è più spesso un adolescente o un adulto – passaggio che, a suo parere, avviene nell’Ottocento:

Quanto più aumenta l’alfabetizzazione di un popolo, tanto più dovrebbe diminuire il fascino del fantastico. Fa eccezione il mondo occidentale della seconda metà del ventesimo secolo: è un mondo iperrazionale, eppure la letteratura fantasy esplode forte come non mai”5.

Facciamo però un passo indietro. L’autrice esclude dalla sua trattazione la cosiddetta letteratura alta, probabilmente perché si occupa del fantastico come “la letteratura dei senza letteratura”: il modo che le categorie in genere escluse dall’alfabetizzazione (donne, bambini che divenivano adulti normalmente illetterati) usavano per tramandare le proprie concezioni culturali di generazione in generazione.

Eppure un’eccezione la si vuole fare, correndo il rischio di suscitare scandalo: il passaggio dalla Divina Commedia di Dante Alighieri al Canzoniere di Francesco Petrarca e al Decameron di Giovanni Boccaccio. Nel passaggio fra la prima metà e la seconda metà del Trecento abbiamo un grande poema che usa il fantastico liberamente e creativamente in senso dichiaratamente allegorico (o figurale, come dice Auerbach). Dante parla del percorso umano verso le realtà divine, che sono per lui, cristiano, assolutamente reali, usando serenamente figure mitologiche come Cerbero o Minosse o Gerione. Non si fa scrupolo di compiere questa operazione poiché la sua cultura era quella che presupponeva una visione simbolica e una realtà che doveva essere raggiunta perforando una superficie che era solo apparenza contingente. La stratificazione dei significati era ovvia per il mondo medievale: per attingere il senso si deve scavare nel profondo e ogni cosa è figura di altro.

Per Dante ciò che c’è sotto i nostri piedi (l’Inferno) e ciò che c’è nei cieli vanno oltre l’apparenza di ciò che possiamo vedere e toccare: tutto rimanda ad Altro e nulla è a caso. C’è il libero arbitrio dell’uomo che si implica con la realtà multiforme e densa di rimandi e significati da investigare: quante domande fa Dante personaggio alle sue guide? Per Petrarca e Boccaccio tutto è dentro di sé e fuori di sé sotto una volta stellata oltre la quale Dio, se c’è, non c’entra. Il Bene e il Male sono scelte conchiuse nell’animo o avventure più o meno sfortunate in cui incorrere.

Questo vuole la moderna concezione della Ragione: misura stabilita dall’uomo in cui il Mistero rimane estraneo. Piano piano, impercettibilmente, con il Rinascimento (il glorioso 500), più decisamente con l’Illuminismo (il 700 razionalista) e poi con il Positivismo (l’800 scientista), si poteva ritenere reale e vero solo ciò che cadeva sotto i sensi e poteva essere ratificato da prove matematiche. La religione, come irruzione del Divino nella realtà, poteva rimanere chiusa nelle chiese e nelle coscienze dei singoli, ma l’azione umana si poneva con le sue scelte sotto un cielo vuoto. L’unica autorità: lo Stato e le sue leggi.

Quando leggiamo oggi un libro di narrativa (non fantastica) troviamo il meglio e il peggio dell’uomo: l’amicizia, l’amore, piccolo e rachitico per le nostre pochezze, o grande e capace di sacrificio per la grandezza che si annida nel cuore dell’uomo, oppure il male di cui siamo quotidianamente intrisi, quello meschino e minimalista, ma non per questo meno dirompente, o quello orrendo, nefando, di cui siamo sempre stati capaci. Sempre si tratta di scelte morali, di una moralità autoreferenziale. Persino nei telefilm e fiction di ogni tipo troviamo riflessioni sulla moralità. Quello che non troviamo sono riferimenti a un Bene o a un Male assoluti. Per molti il progresso della Civiltà della ragione è proprio questo: Dio e il Diavolo restano fuori. E se ci capita qualcosa di meraviglioso, come un amore vero o una disgrazia terribile, è solo una questione di fortuna. Non c’è provvidenza e se c’è serve a incolparla del male che un Dio amoroso non dovrebbe permettere. Ci sono gli eroi, disposti a sacrificarsi per l’umanità, ma sono affidati alla propria bravura per farcela. Il successo del Principe capace di domare la Fortuna di machiavelliana memoria.

Quasi di stralcio ricordiamo come i roghi delle streghe siano avvenuti per la maggior parte all’inizio del 500, quando la ragione dell’uomo al centro dell’universo avrebbe dovuto irradiarsi di gloria; il mito dei vampiri e l’interesse per magia, alchimia e riti misterici si afferma nel quadro del trionfo della ragione illuminista. Nell’ottocento, Frankenstein di Mary Shelley vuole esprimere timore per la ybris della scienza trionfante nel contesto della Rivoluzione industriale; alla fine dello stesso secolo Stevenson esprime la medesima paura della scienza e della divisione irredimibile dell’uomo nello sdoppiamento del dott. Jekill e Mister Hyde. L’irrazionale è qualcosa che, se buttato fuori dalla porta, rientra immancabilmente dalla finestra a esprimere paure che non riusciamo a esorcizzare e che risultano espresse preferibilmente nel fantastico e nelle corde che muove in noi, anche quasi contro la nostra volontà.

Arriviamo ora al Novecento: ricorda Silvana De Mari, il nostro “è un mondo iperrazionale, eppure la letteratura fantasy esplode forte come non mai”.

In principio ci furono J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, quando il fantastico ancora non si chiamava fantasy. Scrive Andrea Monda: “I due, entrambi professori di filologia ad Oxford, erano amici e, così si racconta, non trovando molto interesse per la letteratura che girava in quel tempo (siamo negli anni ‘30), si dissero l’uno l’altro: proviamo a scrivere noi qualcosa? Nacquero così le due trilogie: quella ambientata nello spazio, Lontano dal pianeta silenzioso… scritta da C.S. Lewis, e quella ambientata nel tempo, in un medioevo rivisitato, scritta da Tolkien, appunto Il signore degli anelli”6

Al di là del tono da intima chiacchierata che contraddistingueva quelli che si chiamarono gli Inklings, il gruppo di professori di Oxford di cui facevano parte i due autori, colpisce la frase “non trovando molto interesse per la letteratura che girava in quel tempo…”: lungi dall’essere un giudizio preciso e circostanziato, getta però una sorta di interrogativo a cui qui si vuole rispondere con necessaria genericità tanto alto e impegnativo è l’argomento.

Era passato il Positivismo, con i suoi corrispettivi letterari del Verismo e del Naturalismo, con romanzi che, sperando o disperando nel progresso, volevano illustrare la “realtà” della situazione disastrata delle classi povere della seconda industrializzazione; il Decadentismo, invece, aveva ribadito l’esistenza di un mistero inattingibile dalla razionalità, che rimaneva però estraneo e sfuggente nei meandri delle visioni di poeti più o meno veggenti. La realtà, sì, era costituita da una rete di simboli, ma sul Bene e sul Male non si poteva scommettere, poiché Illuminismo e Positivismo non erano passati invano. Il deserto dell’umano è percorso dalla pretesa liberazione pagana della potenza assertiva dell’uomo di Nietsche, dalla coerenza proba del pessimista Montale, dalla percezione della solitudine dell’io di fronte al mondo, l’inutilità, la precarietà, la finitudine, il fallimento, l’assurdo dell’esistere dell’esistenzialismo.

È allora, in questo panorama, che la speranza cristiana con i suoi valori e le sue certezze si trasferisce, quasi casualmente, in quella che viene definita letteratura fantasy. Non nasce qui la letteratura fantastica e dopo questi due grandi della letteratura inglese si evolve in una quantità di sottogeneri, con molti autori che, con sfumature e intenti diversi, hanno dato vita al proprio mondo fantastico. L’ipotesi che si vuole argomentare qui però è che il fantasy, nella declinazione grandiosa de Il Signore degli anelli di Tolkien e de Le cronache di Narnia di Lewis, abbia raccolto l’anelito all’assoluto e al trascendente dei due amici inglesi, uno cattolico e l’altro anglicano, e soprattutto quella dei loro numerosissimi lettori. Il loro successo è il punto. Si dice che Il Signore degli anelli sia uno dei libri più letti dopo la Bibbia. Al di là della correttezza dell’affermazione, forse abbiamo nostalgia della Provvidenza, di un ideale grande per cui valga la pena di morire, di un Bene da scegliere con il proprio libero arbitrio, che sia Padre amorevole, di una sofferenza da abbracciare perché la croce possiede un valore salvifico e annuncia un bene più grande: la Resurrezione; di un Male che è vivo e reale e circuisce pericolosamente i nostri pensieri, ma che è riconoscibile e preciso. Abbiamo bisogno di un lieto fine che sia di qualità più alta del bacio finale fra i due innamorati, di una Giustizia che sia onniveggente e onnicomprensiva e non tradisca le aspettative del nostro cuore.

Di certo ci affidiamo al mondo immaginifico della nostra fantasia: lo fanno gli scrittori e lo fanno i lettori: è facile e costa poco, ma il desiderio di Bene che ci spinge non è meno reale e imponente. C’è chi nega la struttura cristiana del Signore degli anelli, per motivi più o meno avvertiti, ma avanzando il dato che simboli e fatti religiosi siano assenti nella trilogia tolkieniana: sentiamo allora cosa dice l’autore stesso. Sempre Andrea Monda, infatti, menziona una lettera scritta da Tolkien all’amico gesuita Robert Murray, nella quale confida che:

Il Signore degli anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica; all’inizio non ne ero consapevole, lo sono diventato durante la correzione. Questo spiega perché non ho inserito, anzi ho tagliato, praticamente qualsiasi allusione a cose tipo la «religione», oppure culti o pratiche, nel mio mondo immaginario. Perché l’elemento religioso è radicato nella storia e nel simbolismo. …a dire la verità io consciamente ho programmato molto poco…Di sicuro non sono stato nutrito dalla letteratura inglese…Sono cresciuto leggendo i classici, e ho scoperto per la prima volta la sensazione di piacere che la letteratura può dare con Omero7.

Si noti il termine “la sensazione di piacere”: Silvana De Mari ricorda che il poema epico raccontato dagli aedi scatenava, con le emozioni dei neurotrasmettitori tipo serotonina ed endorfine, e favoriva il sentimento di affiliazione al gruppo consentendo il coraggio, cosicché i poveri contadini dei villaggi greci cedevano al cantastorie il loro scarso pane e cipolle pur di potersi sentire così. C’è qualcosa di grande per cui vale la pena morire: questo è l’afflato ideale che ci si scatena dentro leggendo certe storie, ma non è solo un fatto chimico. Continua la De Mari:

l’orrore, il dolore della perdita della presenza di Dio nel mondo, li abbiamo messi nella fantasy. …L’unica giustificazione è che ci siano nel fantasy dei contenuti che tutti riconosciamo come nostri, emozioni spaventose che non sono affrontabili se non stemperandole nell’inesistenza di un mondo fantastico. Perché Il Signore degli Anelli ha venduto cento milioni di copie, e la gente si compra il vestito bianco e fa finta di essere Gandalf? Perché dentro ci sono paure che noi capiamo. Ci dice Kafka che la realtà non può essere guardata in faccia, abbiamo bisogno di un velo che la copra. Quel velo può essere il genere fantastico8.

Allora, come diceva Tolkien, il fantasy è un linguaggio universale, che chiunque può capire. Ma parla di un mondo sconvolto dalle guerre mondiali in cui domina la paura della fine di tutto. Tolkien e Lewis avevano combattuto durante la prima Guerra mondiale e Tolkien aveva perso il figlio nella seconda. Nella lotta senza quartiere fra la compagnia dell’Anello e le forze coalizzate intorno al malvagio Sauron c’è il cuore dell’umanità, che cerca la forza per non soccombere e la trova nella speranza cristiana. Non è una fuga dalla realtà. Il leone nel mondo di Narnia è allegoria di Cristo e diventa il centro affettivo e propulsivo della crescita per un gruppo di ragazzi che, nella dimensione reale, erano sfollati e allontanati dai genitori durante la Guerra.    La letteratura fantasy è stata – ci dice la De Mari – la scelta dei due grandi fondatori Tolkien e Lewis di salvare i valori cristiani e metterli nella letteratura.

C’è una categoria importante che Tolkien menziona nel suo saggio Sulle fiabe, introducendo il concetto di “eucatastrofe”. Ce ne parla Paolo Gulisano:

Il racconto eucatastrofico, contenente cioè un giudizio morale sugli avvenimenti e una conclusione appropriata, è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione. Quando in un racconto fantastico abbiamo a trovare un “capovolgimento”, un’interruzione del corso negativo degli eventi, un ribaltamento dell’inesorabile, opprimente realtà, abbiamo anche una stupefacente visione della gioia, dell’aspirazione del cuore che per un istante travalica i limiti del racconto, lacera la ragnatela della vicenda, permette che un bagliore la trapassi. “Gioia acuta come un dolore” dice Tolkien, presente nonostante le sconfitte e i fallimenti, poiché smentisce l’universale sconfitta finale, a dispetto delle molte apparenze contrarie evidenti nel tempo presente9.

In altre parole proviamo un brivido impagabile quando tutto quadra, quando il Bene trionfa, capiamo che il dolore non è stato inutile e il Male è stato sconfitto. Ed è Tolkien stesso a spiegare la sua concezione di questa funzione catartica del lieto fine:

I Vangeli contengono una favola o meglio una vicenda di un genere più ampio che include l’intera essenza delle fiabe. I Vangeli contengono molte meraviglie, di un’artisticità particolare, belle e commoventi, “mitiche” nel loro significato perfetto, in sé conchiuso: e tra le meraviglie c’è l’eucatastrofe massima e più completa che si possa concepire. Solo che questa vicenda ha penetrato di sé la Storia e il mondo primario; il desiderio e l’anelito alla subcreazione sono stati elevati al compimento della Creazione. La nascita del Cristo è l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile l’“intima consistenza della realtà”.

Sta dicendo che quando inventiamo storie “subcreiamo”, ispirandoci a ciò che ha fatto Dio stesso con la creazione; nelle nostre subcreazioni, le fiabe per esempio, immaginiamo un lieto fine, ma Dio questo lieto fine lo ha attuato veramente, nascendo, morendo e risorgendo: così ci ha dato un lieto fine che non è racconto, ma realtà, poiché ci ha promesso la stessa vittoria sul male e sulla morte. Le piccole “fini felici” ci conquistano perché parlano alla nostra profonda nostalgia della grande Fine felice: la nostra salvezza, cioè la nostra ultima definitiva felicità, alla quale non ci concediamo più di credere.

Abbiamo bisogno che ci sia un Bene assoluto nell’intrico delle nostre vite. Gli diamo normalmente altri nomi e altre consistenze, cerchiamo di nascondercelo e di schiacciarlo dentro involucri a buon mercato. Ci riusciamo benissimo, ma fino a un certo punto. Ci apre il cuore il lieto fine e ce lo concediamo dentro una storia. C’è chi dice che il fatto stesso che stia dentro una storia è indicativo del dubbio che, in fondo, sia falso. A scommettere su questo lieto Fine nella realtà ci vuole coraggio. Oppure rimaniamo chiusi nella bolla di vetro della nostra realtà positivistica per paura che oltre non ci sia nulla, solo un universo desolatamente vuoto di uno sguardo amico, cercando di accontentarci del bene che riusciamo a produrre autonomamente e sperando che il male non ci tocchi, nell’angosciosa incertezza che il caso non ce lo faccia cadere addosso come un masso. La croce senza speranza di Resurrezione è la nostra paura e il male di cui siamo capaci nega le nostre future “magnifiche sorti e progressive”. Il desiderio di felicità però ci muove, nonostante i nostri cinismi. E certe storie ce lo ricordano più di altre.

Un altro aspetto caratterizza il fantasy: l’eroe è colui che è investito di una grande missione, ha una “vocazione”, ha un destino da compiere accettando l’avventura. La fantasy ci dà l’opportunità di immedesimarci in questo eroe e ciò è esaltante proprio perché dentro di noi, forse, è nascosta la paura di essere solo una formica fra le altre, di essere sostanzialmente irrilevanti, di non essere unici e importanti. Anche essere preziosi per le persone che amiamo potrebbe non bastare: vorremmo essere importanti per l’universo intero. L’idea di essere solo minuscole parti di un ingranaggio enorme, che procederà tranquillamente senza di noi dopo la nostra trascurabile dipartita, è insopportabile, come lo era per Foscolo o per Leopardi, schiacciati fra l’aspirazione romantica all’infinito e le sicurezze illuministiche dell’impossibilità della sopravvivenza dopo la morte. L’eroe è importante per i destini dell’umanità e noi vorremmo essere eroi, per questo leggiamo le avventure dei personaggi del fantasy, da Frodo a Harry Potter a Buffy. Forse questa nostalgia esiste perché abbiamo dimenticato che, nella visione cristiana, l’io di ognuno di noi è sacro e insostituibile, è profondamente prezioso nella propria unicità e ogni nostro libero gesto è determinante per l’universo intero. Per il cristiano la vita è davvero una grande avventura e questo Tolkien ha voluto narrare con le vicende del piccolo Frodo, un semplice hobbit con un grande destino che, quando sta per realizzarlo, drammaticamente fallisce. Un altro lo aiuta, il giardiniere Sam. Profondo è il significato di questa eroica incapacità: segnati dal peccato originale, siamo terribilmente deboli ed è aprendoci all’altro/Altro che ci accompagna, con cui siamo sodali, che riusciamo nella nostra missione. L’apertura all’altro/Altro è la nostra grandezza: il fantasy ci racconta questo messaggio subliminale. È perché abbiamo messo da parte questa sostanziale certezza cristiana che abbiamo bisogno di consolarci (in senso buono), frequentandola nei libri di genere fantastico.

Le narrazioni ci parlano nel bene e nel male di quello che ci interessa davvero; il fantasy è variegato e diverso dopo Tolkien e Lewis e ha, a volte, apertamente osteggiato i due maestri proponendo costruzioni fantasiose affascinanti; ma il motivo per cui la frequentiamo è che vogliamo sperare e il motivo per cui la evitiamo è, forse, che non ci vogliamo illudere.

Concludiamo ancora con Edoardo Rialti:

La fantasia, se correttamente usata, spalanca lo sguardo e non lo racchiude; non è una fuga dalla realtà, ma una fuga nella realtà. Come può essere questo? Ma desideriamo davvero anche i cavalli alati, oltre ai cavalli, e perché? Perché la fantasia non solo strappa le cose di tutti i giorni alla grigia banalità che vi abbiamo steso sopra, ma incarna anche le realtà invisibili e più profonde in forme a noi comprensibili. La domanda che Tolkien ci propone è questa: chi vede di più un albero, chi ne sa contare tutte le cellule o chi, come gli antichi poeti, vi scorge una ninfa, una creatura alta e bella? Tolkien non ha dubbio nello schierarsi con la risposta degli antichi, perché è quella che svela l’aspetto più vero e profondo delle cose, il loro essere creature, parole vive del grande racconto di Dio, forma visibile di una più profonda realtà invisibile. Narrando di candidi cavalli alati che portano gli eroi a combattere contro mostri immondi stiamo forse raccontando qualcosa che non esiste? Per Tolkien quell’immagine comunica qualcosa di profondamente, concretamente vero: l’uomo non cammina da solo in un universo senza scopo, ma fa parte di un ordine al quale sono legate tutte le cose belle e buone che vediamo e infinite altre bellezze che ancora non immaginiamo, e che purtroppo ci sono anche forze e creature che a questo ordine si sono ribellate, disseminando caos e morte. L’uomo sostenuto dalle bellezze invisibili, di cui le bellezze visibili sono come le prime messaggere, può prendere parte alla grande battaglia contro gli orrori invisibili del regno satanico. È questo il grande tema di tutte le fiabe10.

Note

1 Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia, p. 42.

2 Silvana De Mari, Il drago come realtà, p. 23.

3 Stefano Arduini in Il mistero del linguaggio umano http://www.meetingrimini.org/default.asp?id=673&item=4454

4 Edoardo Rialti, Bellezza acuta come il dolore, da oltre la misura del mondo. Tolkien, la fantasy e l’emergenza educativa http://www.diesse.org/detail.asp?c=1&p=1&id=1344

Il drago, p. 60

6 Andrea Monda, TOLKIEN E LEWIS: gli allegri cristiani di Oxford. http://www.bombacarta.org/files/tolkien-lewis.pdf

Ibidem.

Il drago, p. 74.

9  Paolo Gulisano,Tolkien il mito e la grazia, p. 17.

10 Edoardo Rialti http://www.diesse.org/detail.asp?c=1&p=1&id=1344

Letture

Andrea Monda, Tolkien e Lewis: gli allegri cristiani di Oxford, http://www.bombacarta.org/files/tolkien-lewis.pdf.

Federico Maria Giani, Dostoevskij, Tolkien & Eliot: il deserto, l’eroe, il potere e la grazia http://www.eldalie.com/saggi/DTE/DTE_Sommario.htm

Paolo Gulisano, Tolkien. Il mito e la grazia, Ancora, 2001.

Paolo Gulisano, J. R. R. Tolkien: mitologia e teologia della storia http://www.gandalf3.it/site/biblioteca-menusda-171/825-j-r-r-tolkien-mitologia-e-teologia-della-storia.html

Silvana De Mari, Il drago come realtà, Salani editore, 2007.

Silvana De Mari, La paura e la menzogna dai fratelli Grimm ad Harry Potter. Storia della letteratura fantastica degli ultimi sette secoli, Docet – Idee e materiali per la didattica. Fiera del Libro per Ragazzi, Bologna 28 marzo 2006.

Simone Regazzoni, Harry Potter e la filosofia, Il melangolo, 2008.

Stefano Arduini, Intervento alla conferenza Il mistero del linguaggio umano, 23 agosto 2007, Meeting di Rimini http://www.meetingrimini.org/default.asp?id=673&item=4454

Thomas Howard, Narnia e oltre. I romanzi di C. S. Lewis, Marietti editore, 2008.

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