Prometheus: la recensione

Tutto perfetto… a parte la sindrome di Lindelof

Voglio iniziare questa recensione parlando di Damon Lindelof, sceneggiatore di Prometheus (insieme a Jon Spaihts), co-ideatore di Lost e, soprattutto, uomo afflitto da una grave disfunzione creativa: l’incapacità di dare risposte. Già perché Lindelof è indubbiamente bravo a inventare misteri ma quando arriva il momento di spiegarli, non riesce a resistere alla tentazione, e ne aggiunge ancora… e ancora… e ancora. Ma andiamo con ordine.

Prometheus è un film di Ridley Scott, uscito il 3 giugno negli Stati Uniti e arrivato nei cinema italiani solo lo scorso venerdì. La pellicola era una delle più attese del 2012, perché ambientata nell’universo cinematografico della serie Alien e, soprattutto, perché accompagnata da un marketing virale imponente che era riuscito a coinvolgere anche tutti coloro che Alien, in realtà, non lo avevano mai visto. In poche parole: un film evento. E per gran parte della sua durata (124 minuti) tutte le aspettative sono rispettate.

Riassumendo la trama in pochissime parole, possiamo dire che Prometheus narra le vicende di due archeologi Elizabeth Shaw e Charlie Holloway che, interpretando delle pitture rupestri ricorrenti in molte delle civiltà antiche, trovano una mappa stellare che dovrebbe condurre alla civiltà che ha dato origine al genere umano sulla Terra. Ne nasce così una missione spaziale finanziata dalla Weyland Corporation, a cui partecipano anche gli stessi archeologhi, che ha lo scopo di scoprire la verità sui nostri creatori. Quello che scopriranno, tuttavia, sarà sconvolgente.

Una trama semplice che viene arricchita da riferimenti filosofici e religiosi, in un mix di azione e riflessione, che va ben oltre il semplice intrattenimento. La regia di Ridley Scott è maestosa, lenta, ma appassionante, e il forte contrasto tra le inquadrature panoramiche degli esterni (ampliate ulteriormente dal 3D, imposto agli spettatori in molte regioni italiane) e gli spazi stretti della navicella spaziale, prima, e dei cunicoli alieni, poi, riesce a trasmettere tutta la gamma di emozioni provate dai protagonisti. Il coinvolgimento dello spettatore è assicurato anche dalle straordinarie interpretazioni del cast, dall’intensissima Noomi Rapace allo straordinario Michael Fassbender, senza dimenticare gli ottimi Guy Pearce (quasi irriconoscibile sotto il trucco), Idris Elba e Charlize Theron. Il tutto è poi arricchito dal design della tecnologia aliena, derivato dal lavoro di Giger (premio Oscar per gli effetti speciali visivi di Alien), e sviluppato in modo da essere al contempo affascinante e pauroso.

Un film che sembra perfetto fino all’ultimo quarto, quando tutta la struttura narrativa inizia a vacillare sotto l’implacabile azione della “Sindrome di Lindelof. Già, perché in Prometheus ci sono molte domande, ma nessuna risposta. E se i produttori se ne compiacciono per l’alto potenziale di sequel che ha la pellicola, lo spettatore si indigna perché alla comparsa dei titoli di coda si rende conto di aver pagato (caro, vista l’imposizione del 3D) per un prodotto incompleto.

Realizzare saghe cinematografiche complesse (come è stata quella de Il signore degli Anelli, e come sarà quella de Lo Hobbit) può arricchire la qualità del cinema stesso, ma lo spettatore ha il diritto di essere informato della vastità del progetto. Quando il 14 dicembre andrete a vedere Lo Hobbit – un viaggio inaspettata saprete che è il primo di una trilogia per cui non potete lamentarvi se tutti i quesiti suscitati dalla trama non avranno un’immediata risposta. Ma quando io, spettatore pagante, vado al cinema a vedere Prometheus, un film di cui non è stato annunciato nessun sequel ufficiale, io ho il diritto a una conclusione seria che comprenda spiegazioni esaurienti. Se così non accade, ho il dovere di sentirmi preso in giro.

Ed è esattamente questa la sensazione che rimane alla fine di Prometheus, una colossale, costosa e fantascientifica presa in giro. Delusione vera.

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