“Non credo che scriverò più di Hyoutsuki e di Ivy. Ma non sono mai riuscita a sbarrare i portoni: in tutte le storie esiste una porticina che è giusto lasciare quanto meno socchiusa”. Così Lara Manni si esprime in merito a Tanit, sua ultima fatica letteraria.
Non si chiude di certo il lavoro della scrittrice, che ha appena terminato un romanzo (titolo provvisorio, Il gioco di Lavinia) omaggio a Lovecraft e che è al lavoro su un altro cimento, di cui ci fornisce una piccola anticipazione. Ancora prima, però, Lara Manni ci parla di Tanit, opera conclusiva della trilogia che comprende Esbat e Sopdet, uscita lo scorso 17 febbraio.
Degli umani, dell’amore e di “altri demoni. Il sacro, il profano, la vita, la morte, l’amore – e l’odio – sono calati nello scenario di una Roma sconvolta da una violenza apocalittica, mentre si gioca una partita tra i personaggi. Personaggi nuovi, ma anche “vecchie conoscenze” che tornano nel capitolo conclusivo della trilogia di un’autrice di talento e di spicco nel panorama del fantastico italiano.
1. Lara, Tanit è il capitolo conclusivo della trilogia inaugurata da Esbat. Ricollegandomi anche a quanto scrivi al termine del libro, si tratta di una storia che finisce o, piuttosto, di un ciclo che si chiude?
Un ciclo che si chiude, direi. Tutti i miei finali lasciano spiragli per un proseguimento della storia: non necessariamente da parte mia. Amando il fandom, non posso che condividerne l’amore per i sentieri non battuti dal narratore, ma che altri sono liberi di percorrere. Non credo che scriverò più di Hyoutsuki e di Ivy. Ma non sono mai riuscita a sbarrare i portoni: in tutte le storie esiste sempre una porticina che è giusto lasciare quanto meno socchiusa.
2. Tanit è il nome di una divinità adorata a Cartagine. Quali sono le connessioni – se esistono – o le analogie tra la bambina nera e tale divinità?
Non esiste una precisa connessione con la divinità cartaginese. Axieros e Tanit, sono uno dei volti delle dee: Demetra e Inanna, Ishtar ed Ecate. Nella trilogia, mi sono rifatta più volte al culto della Grande Madre e al modo in cui è stato elaborato da diverse culture. La Dea – l’unica Dea – è sempre femmina, come ci ricorda Robert Graves. Almeno finché un dio geloso non si impone come unico, e onnipotente. E persistente.
3. La bambina nera ha bisogno del corpo di una donna mortale per nascere. Vi è un’analogia con la nascita di Cristo e si tratta di un’analogia “rovesciata”?
Ho sempre constatato che, in tutti i miti religiosi che prevedono la discesa sulla terra di un semidio, o di una semidea in questo caso, c’è bisogno di un’ibridazione con il corpo e il sangue di una donna umana. Del resto, la trilogia racconta di ibridi: tutti i personaggi sono in bilico fra due situazioni, o due mondi, o due età. La Sensei, in Esbat, si sta lasciando alle spalle la giovinezza per entrare nella vecchiaia. Ivy si lascia alle spalle l’infanzia. E non è un caso che siano due donne in mutamento a detenere il potere di poter far diventare reale in un mondo quel che immaginano nel proprio. Ancora. Hyoutsuki passa da un universo all’altro, e cambia profondamente in forza di quel passaggio. Yobai nasce umano. I punti di contatto (o di rottura) sono quelli che, da sempre, pongo alla base delle mie storie.
4. In questo terzo capitolo troviamo nuovi personaggi, tra cui Nadia e Brizio. Nadia, in particolare, è una donna di mezza età che in Ivy trova la figlia che non ha mai potuto avere. Come si sviluppa il rapporto tra le due?
Nadia è speculare e simile alla Sensei. La madre buona e la madre crudele, se credi. La Sensei non ha figli, e non ne ha Nadia: ma quest’ultima li ha desiderati e li desidera. E per Ivy, che ha perso una madre (per quanto fatua ed egoista fosse Alice), è una presenza importante. Calda, la definisce. Certo, a separarle ci sono molte menzogne, da parte di entrambe. Ma credo che, nonostante la scelta finale di Nadia possa sembrare ingiusta, ci sia, da parte sua, un profondo desiderio di protezione che non sapeva come mettere in pratica altrimenti.
5. Che cosa hanno portato le precedenti vicende nella vita di Ivy e come si è evoluta la protagonista rispetto ai precedenti libri?
Ivy è quasi una bambina in Esbat, una ragazza che impara a crescere in Sopdet, una giovane donna spaventata in Tanit. Ivy non è altro che un’adolescente: oscilla fra emozioni contrastanti, è capace di gesti nobilissimi come di fughe improvvise. Di certo, non è un’eroina canonica. Rifiuta il potere che le è stato dato. Vorrebbe una vita semplice, fatta di piccoli piaceri, di progetti che scaldano il cuore alle donne e agli uomini. Ho pensato molto agli hobbit di Tolkien, mentre Ivy prendeva forma: creature semplici, ma in grado di sovvertire due universi compiendo scelte che farebbero tremare gli eroi senza neanche rifletterci troppo.
6. Il suo rapporto con il demone Hyoutsuki è cambiato?
Certo, come cambiano le emozioni di una ragazza giovane: dall’idealizzazione alla curiosità, dal desiderio al rimpianto, dal sacrificio alla paura. Anche Hyoutsuki cambia, e cambia moltissimo, dalla sua prima apparizione: quasi per lo stesso motivo, perché è attraverso la conoscenza degli esseri umani (che sempre dal desiderio passa) ne comprende le sfumature, le emozioni, le potenzialità. Dal disprezzo, arriva a una forma di pietà ed empatia che è molto più dell’amore.
7. I demoni e la dea Axieros non sono creature sovrannaturali “perfette”. In loro vi sono molti comportamenti umani. A questo punto, il dubbio nasce spontaneo. I veri mostri sono davvero i demoni? O sono “più mostri” gli esseri umani?
Lo sono tutti, e non lo è nessuno. A parte, forse, Yobai: che pure non è un vero e proprio “mostro”, perché ha le sue motivazioni e le sue debolezze, anche se ricacciate indietro. Non ho mai creduto alla contrapposizioni fra stirpe divina e uomini: se gli dei sono come gli uomini immaginano, pur nella loro alterità devono contenere in sé qualcosa della complessità dell’animo umano. Qualcosa delle loro ombre e delle loro luci. So che gli umani non escono benissimo dalle mie storie: ma non tutti. Fra loro, in tutti e tre i romanzi, c’è chi è capace di provare sentimenti più che positivi.
8. L’amore è un tema centrale. Tu ci racconti di amori molto difficili, senza edulcorazioni, a volte di legami che sembrano più dipendenze. Spesso nella realtà avviene che molte relazioni nascono per ragioni che hanno la parvenza di amore, ma che in realtà affondano le loro radici in altre ragioni. Si tratta quest’ultima di un’idea che sviluppi a tua volta, o l’amore di cui narri è un sentimento troppo complesso per poter essere ridotto a definizioni standardizzate?
Esistono amori facili? Credo di no. L’amore (qualsiasi tipo di amore, non necessariamente quello per un compagno o una compagna) muta con il tempo e con le persone: è uno dei motivi per cui credo che, quando si inserisce una storia d’amore in un romanzo, bisognerebbe restituirne, appunto, la complessità e non seguire lo schema colpo di fulmine- ritrosia- dichiarazione- ostacoli-lieto fine. Nessuno degli ingredienti è necessario. La più bella storia d’amore che io abbia mai letto è La storia di Lisey, di Stephen King. Una donnina di mezza età e un marito morto. E una forza che colpisce allo stomaco.
9. Leggendo Tanit, ho avuto l’impressione di “leggere un manga”. Stessa cosa anche per Sopdet ed Esbat. Ma al manga si aggiungono altri elementi che moltiplicano i piani di lettura. Quando ti sei cimentata in questo e negli altri lavori, avevi in mente un manga?
Al manga, veramente, ho pensato solo nell’incipit di Esbat e in un capitolo di Tanit, quando ho adottato, nel racconto di Ivy, il procedimento visivo di un fumetto. La moltiplicazione dei piani di lettura e dei punti di vista è una strada che ho seguito dal primo momento, così come l’uso del tempo presente. Nel prossimo romanzo, invece, sperimento la prima persona e il passato (anche se non completamente).
10. Fantastico e realtà s’intrecciano in maniera forte e credibile. Per te la verosimiglianza resta un caposaldo o un concetto che si può mettere in discussione?
Nel momento in cui si scrive, si accetta di essere in una finzione, sempre. Si tratta semplicemente di scegliere il grado a cui la si vuole portare. La mia strada – non valida per il resto del mondo, rifuggo dai manifesti e dalle affermazioni secondo le quali “letteratura è” o “storytelling è” – intreccia il quotidiano e il mondo che lo costeggia e lo vela. Non riuscirei a scrivere un romanzo completamente staccato da quel che conosco e osservo attorno a me. Né riuscirei a scriverne uno decisamente realistico. Sono, appunto, per gli ibridi. Ammesso che esista qualcosa che non lo sia.
11. Tra le riflessioni che hai affrontato nel tuo blog, molte riguardano il genere fantastico. A tuo avviso, in che direzione sta andando?
Dal punto di vista del mercato, immagino che ci sarà uno “sboom”, dal momento che negli ultimi anni c’è stata una vera e propria corsa al fantasy da parte degli editori. Potrebbe essere l’occasione per scoprire che il fantastico non equivale necessariamente ai libri young adult. Difficile, comunque, fare previsioni. Di sicuro, esistono molti ottimi narratori italiani che stanno seguendo strade interessanti.
12. E come scrittrice in quale direzione stai andando tu?
Non lo so ancora. Simile ma non identica a quella della trilogia, diciamo.
12. Hai dei progetti in cantiere? Puoi darci alcune anticipazioni?
Ho terminato un romanzo, con il titolo provvisorio de Il gioco di Lavinia, che è ambientato nel 2005 e che ha una protagonista di trent’anni. Un omaggio a Lovecraft, dichiaratissimo. Poi, sto ronzando intorno a un nuovo libro ambientato nel 1980, molto più complesso dei precedenti. Spero di riuscire a iniziarlo fra qualche mese: ma è possibile che ci metta le mani molto prima.