Burton racconta Burton

Uno dei registi più controversi del cinema americano si racconta in un libro edito da Feltrinelli… Il perfetto regalo di Natale per il Burtoniano incallito.

Chi è esattamente Tim Burton? Cosa racconta il suo passato e cosa lo ha portato ad essere il regista che è adesso? Difficile rispondere a caldo a domande come questa, forse… Ma non se è lo stesso Burton a farlo.

«C’è gente che è brava a raccontare storie e c’è gente che è brava a fare film d’azione. Ma io non sono così. Quindi, se volete che faccia qualcosa, lasciatemela fare come piace a me e poi sperate in Dio. Se non volete che faccia una certa cosa, allora non fatemela fare. Ma se la faccio, non chiedetemi di uniformarmi».

Nato e cresciuto nella cittadina di Burbank, il piccolo Tim è un ragazzino piuttosto introverso. Non ama particolarmente rifugiarsi nei libri, piuttosto preferisce rinchiudersi in casa a guardare un buon film, ed è durante la sua gioventù che scopre la sua passione per il cinema o per personaggi del cinema fuori dal comune come l’attore horror Vincent Price. Una passione, dunque, che può facilmente tramutarsi in realtà, quando nel 1976 Tim Burton vince la borsa di studio per Valencia (in California), che gli permetterà di accedere facilmente alla Walt Disney nel 1979.

Qui, Burton comincia la sua attività di animatore, anche se, a dirla tutta, la casa di Topolino e Paperino gli sta piuttosto stretta e si adatta a fatica ai suoi desideri. Alla domanda “Come mai hai abbandonato la Disney”, infatti, risponde sempre “Io e la Disney non ci siamo mai capiti”. Incomprensioni a parte, è qui che Burton viene notato ed è qui che gli vengono offerti 60.000 dollari per girare il suo primo cortometraggio animato.

Nasce così Vincent, ispirato a Vincent Price (l’attore doppierà la voce fuori campo del cartone animato), uno dei suoi miti dell’infanzia insieme ai libri del Dr Seuss. Seppur in misura embrionale, è facile intuire come il protagonista del corto sia fondamentalmente Burton in persona, fattezze esteriori incluse. Il film ottiene successo e piace molto ai suoi produttori, che decidono di provare a fidarsi di lui ancora una volta, affidandogli un budget di un milione di dollari per dirigere il suo primo film con attori reali professionisti.

Arriva, dunque, il momento di Frankenweenie, la versione canina del Frankenstein di Mary Shelley con il piccolo cagnolino Sparky come protagonista. Il film, però, per via di alcune tematiche (neppure troppo scabrose, in realtà) ottiene il PG e non riesce ad approdare al cinema.

Per poter vedere il suo primo lungometraggio proiettato nelle sale Burton dovrà pazientare fino al 1985, anno in cui arriva al cinema Pee Wee’s Big Adventures. Pee Wee’s arriva in un momento delicato della sua vita, poco dopo il licenziamento da Disney, e rappresenta una sorta di Peter Pan, come se fosse, però, riveduto e corretto da Fellini in persona. È lo stesso regista ad affermare, infatti, che il vero pregio di Fellini è “la sua capacità di creare delle immagini che ti trasmettono qualcosa, anche quando non è chiaro il loro significato letterale”. Al suo arrivo nelle sale, il film riscuote un ottimo successo di pubblico, ma un pessimo riscontro di critica. Alle distribuzioni, tuttavia, importano vendite e popolarità… Burton può ancora continuare a fare cinema.

Tre anni dopo Pee Wee’s, nel 1989, è la volta di Beetlejuice, ad oggi forse uno dei film più apprezzati di Tim Burton, nonché uno dei più grandi classici del cinema di genere degli ultimi anni. Con lo scopo di ironizzare su un tema drammatico come quello della morte, Burton confeziona un film singolare, diverso, certamente unico nel suo genere, lasciando ampia libertà ai suoi attori e alle loro interpretazioni e avvalendosi di un cast di nomi stellari ed altisonanti (tra i quali spiccano, ovviamente, quelli di Geena Davis, Winona Rider e Michael Keaton, nei panni dello spiritello buontempone protagonista della pellicola) e di una colonna sonora da Oscar, composta da Danny Elfman. Il film diventa, a ragione, un successo planetario e consacra, finalmente, Burton nell’Olimpo di Hollywood.

Lo stesso anno arriva nelle sale anche un altro masterpiece della cinematografia Burtoniana, Batman, un progetto targato Warner Bros., che aveva tra le mani il progetto già da una decina d’anni ed era alla ricerca di un regista che fosse all’altezza delle loro aspettative. Tim Burton era ovviamente quel regista. Lontano dalla prima trasposizione degli anni Sessanta e dallo stile fumettoso dell’uomo pipistrello della serie televisiva, il Batman di Burton è molto più cupo, più introspettivo, più psicologico. Nonostante Burton non ami particolarmente i fumetti, Batman rappresenta, per lui, qualcosa di diverso, di più affascinante… Merito, forse, della sua ambiguità, della sua palesata doppia personalità. All’uscita nelle sale, il film riscuote un successo planetario (forse annunciato) e si trasforma nel miglior incasso del 1989.

Sulla scia di questo successo, Burton comprende che i tempi sono maturi per mettere al mondo una delle sue più preziose creature, Edward mani di Forbice. Il progetto, ispirato ad alcuni suoi disegni, non colpisce particolarmente la Warner, che decide di abbandonare Burton, ma affascina la Fox, che prende immediatamente parte alla produzione/distribuzione di quello che sarebbe certamente diventato uno dei piccoli grandi capolavori di Tim Burton. Il risultato è una bellissima storia d’amore a metà tra Frankenstein (specie per lo scontro finale mostro/folla) e La bella e la bestia (in particolar modo per la storia d’amore “impossibile” tra Edward e Kim), che si pone contro ogni tipo di categorizzazione ed ogni tipo di discriminazione. Pur non essendo autobiografico Edward mani di forbice si avvicina molto alla poetica, alla sensibilità e al passato del regista stesso, specie per ciò che concerne la diversità.

I tempi sono maturi, il tempo è passato in fretta e Burton può considerarsi un regista di fama internazionale, al punto tale che è perfino giunto il momento di realizzare un sequel: Batman – Il ritorno (1992). Secondo Burton, Batman è stato il suo film meno riuscito e, forse, l’idea di girarne il sequel poteva, in qualche modo, rappresentare la maniera più giusta per chiudere i conti con quella storia. Per rendere ugualmente visiva la sua “impronta”, Burton realizza un film carico di tensioni distorte e popolato di personaggi bizzarri e complessi, borderline, emarginati, diversi.

Concepito un po’come il sequel ideale di Vincent, Nightmare Before Christmas arriva nelle sale la notte di Halloween del 1993, con “nostro signore del passo a uno” Henry Selick alla regia e Burton in persona in cabina di produzione. Con questo film, Burton può finalmente tornare a lavorare con la Disney, dando vita ad un progetto magico ambientato nel paese di Halloween, per Burton la festa più bella in assoluto, perché quella in cui le regole vengono sospese ed è possibile diventare chiunque altro.

Dopo Nightmare è la volta di Ed Wood (1994), un film apparentemente molto diverso dai precedenti, ma che in realtà conserva la stessa poetica del regista fin dai suoi primi film. Girato in bianco e nero, senza effetti speciali e volutamente “rozzo”, Ed Wood racconta su pellicola la vita dell’omonimo regista, interpretato sullo schermo ancora una volta da Johnny Depp. Nonostante le apparenze, il protagonista del film è un personaggio burtoniano a tutti gli effetti, perché incompreso, marginale, inserito in un mondo di false apparenze.

Nel 1996 è il turno di Mars Attacks!, il primo film di Burton, forse, che fa ampio e dichiarato utilizzo della computer grafica (gli effetti sono affidati alla Industrial Light and Magic di George Lucas), ma che, allo stesso tempo, non ha riscosso lo stesso successo dei suoi film precedenti. Ispirato ai film di fantascienza degli anni 50, Mars Attacks! è volutamente ironico e forzato e pur essendo differente dai suoi film precedenti, conserva al suo interno qualcosa di Burton.

Nonostante le atmosfere cupe dei suoi film, Burton non si è mai cimentato nel genere horror. Mai fino al 1999, anno in cui il regista dirige Il mistero di Sleepy Hollow, il suo personale omaggio all’horror di un tempo, quello targato Hammer. Anche in questo caso il regista decide di non abusare degli effetti speciali, favorendo i movimenti di macchina e la punteggiatura cinematografia tradizionale. Alla computer grafica, Burton favorirà sempre le false prospettive o una fotografia onirica e non ritoccata.

Fino a questo momento, la carriera di Burton non subisce neppure un rallentamento. Esistono, tuttavia, almeno due cadute significative nel suo percorso, rappresentate, neanche a farlo apposta da due remake di sua realizzazione: Il pianeta delle scimmie (2001) e La fabbrica di cioccolato (2005). Tra loro, un piccolo grande capolavoro: Big Fish (2003). Ispirato all’omonimo romanzo di Daniel Wallace, è questo il suo film più intimo ed introspettivo, forse il più personale, nonostante all’apparenza si distanzi sensibilmente da tutte le altre sue produzioni, perché realizzato subito dopo la morte di suo padre, avvenuta nel 2000, e quella di sua madre, avvenuta due anni dopo, nel 2002.

Dopo una serie di feature films, Burton può finalmente tornare all’animazione in stop motion, con la realizzazione di La sposa cadavere (2005), ispirato ad un racconto di origine europea. Molto vicino alla sua poetica e alla sua sensibilità, questo film sembra quasi il prosieguo naturale di Nightmare Before Christmas, nonostante affronti tematiche diverse, per certi aspetti.

Il grottesco, l’animazione, la commedia, l’horror. Tim Burton ha sperimentato quasi ogni genere. Quasi, perché ancora non s’è addentrato fino in fondo nel musical (se non nel caso di Nightmare Before Christmas), nonostante nei suoi film la musica (e le musiche di Danny Elfman) sia una dei protagonisti indiscussi. Nel 2007, dunque, arriva Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street, ancora una volta con Johnny Depp, ancora una volte con sua moglie, Helena Bonham Carter.

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